Etnodramma è il gioco di ogni società nell'inventarsi le culture.

L'uomo è un etnodramma!

Ecco la doppia faccia dell'antropologia: da un lato, una disciplina all'interno delle scienze sociali e dall'altro un'attività umanistica. Arrivare ad essere un antropologo significa riuscire a rispondere alle esigenze di questa polarità: in altre parole, vincolare strettamente le teorie scientifiche sulla società (universali e super-individuali) agli impatti ricevuti dalla sua condizione particolare, al confronto con l'umanità dei singoli gruppi con i quali si convive.

Essere antropologo è un modo di essere nell'umano.

L'antropologia è una delle poche discipline accademiche che ancora mantiene un'idea di iniziazione. Non attraverso il dottorato, diventato routine, come un rito di passaggio, ma attraverso il lavoro sul campo che propone un viaggio di immersione nello straordinario umano.

Negli ultimi vent'anni alcuni (pochi) antropologi hanno rivelato i loro incontri con realtà insolite e le trasformazioni radicali sofferte nella loro dimensione personale. Ma la rigidezza della postura accademica può arrivare a frenare la promessa di un umanesimo radicale che si trova nelle origini stesse della disciplina, al punto tale da introdurre un atteggiamento di allontanamento e riduzione degli orizzonti. Su questa linea il rischio è la conversione dell'antropologia a una forma, più convenzionale e prevedibile, di sapere sui popoli nel mondo.

Questo dilemma generale tra l'accademia asettica e lontana e la necessità di aprirsi integralmente ai misteri dell'umanità, guardando i membri delle società che ci proponiamo di studiare, è lucidamente espresso da Victor Turner soprattutto all'interno di un suo saggio, Chibamba, the White Spirit, del 1972. Nell'abbandonare la sua antica "eredità materialista e agnostica" incontra la possibilità di sostenere che il simbolismo religioso ci fornisce la chiave per penetrare la "natura di realtà che si possono percepire solamente attraverso i nostri sensi". Questa non è una questione semplice, poiché la necessità di rispondere simultaneamente alle domande della scienza sociale oggettiva e della dimensione integrale della propria condizione umana può condurre gli etnologi più sensibili a conflitti personali distruttivi o irrisolvibili. Jean-Jacques Decoster, dell'Università di Quito mi disse personalmente che proprio Victor Turner prima di morire arrivò a lamentarsi amaramente della sua scelta accademica dicendo:

"Il linguaggio dell'antropologia sociale mi ha ucciso. Chissà se fossi stato un poeta".

Resta da chiedersi, allora, come si possa riuscire a costruire un pensiero esaustivo su fenomeni complessi come le relazioni umane, affrontandole esclusivamente attraverso il linguaggio verbale. La sfida da affrontare nel prossimo futuro si concretizzerà nella possibilità di riconoscere che un' "antropologia poetica", dove il linguaggio estetico si possa coniugare con altri linguaggi già riconosciuti, non solo è possibile ma anche necessaria per una soluzione interessante a questa schizofrenia di fondo. Dopo molti secoli, dove il ruolo della scienza è stato la ricerca della verità e quello dell'arte la ricerca della bellezza, una possibile risposta può allora forse trovarsi nel pensiero di Hölderlin quando sottolinea che il più importante atto della ragione è un atto estetico.

Fabio Gemo - intervista

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